Critici e Recensioni
"Tracce"
Everardo Dalla Noce
Il colore dell'astrazione
La pittura ricerca di Nicola Morea presenta intanto il fascino del mistero. L'artista si esprime con una scrittura segreta, intima, estremamente segnica. Fateci caso: di là dai simboli e dagli interventi di meditazione, il suo andare poggia, se vogliamo, su una serie di linee sottilissime che, sulla tela, si trasformano in materia. Materia pura. E certezza che Morea offra una pittura ricca di dosatura esatta eseguita con microscopici ingredienti.
Si potrebbe perfino pensare che tanta potenza d'espressione contemporanea giunga da una favola di sapore antico, di cultura fortemente spontanea. Eppoi il colore. Il colore caldo di un'astrazione che non è mai fine a se stessa. Semmai in Morea c'è la presenza di un dibattito tra fisico e naturale che sfocia - e quindi esprime - una nuova mentalità . È chiaro che l'artista parta dai rapporti esistenti fra mondo esterno e interiorità nell'intento di cercare un equilibrio1 una mediazione sia con l'arte ampiamente intesa, sia nell'impatto con la vita che Morea propone - svisandola - nella sua tela. La sostanza del suo lavoro è positiva, poggiante in buona parte sul pensiero pascaliano che racconta dello spirito geometrico circa l'armonia che domina l'universo.
Da qui la volontà di Morea, per esempio, di recuperare una pittura in equilibrio proprio nel rapporto posizione e misura del colore. Probabilmente, l'ultima produzione dell'artista, è volta ad una delicata e opportuna critica umana (vedi "Campo di grano"), dove i tagli e gli accostamenti di colore sembrano paradossi accesi dalla folle violenza dei suoi dipinti e dall'ambiguità voluta delle sue agresti testimonianze. Jn sostanza egli cerca il significato delle cose attraverso stati d'animo che affida alla tela con dedizione e convinzione.
La trasfigurazione in Morea, o se preferite, la sintesi di una traduzione della natura, è ogni volta alla base del suo impegno, della sua ricerca che conduce organicamente. Il sapore magico di un quadro che esce dal suo pennello ci porta necessariamente verso mondi lontani, fantastici, immaginati o immaginari ma di certo esistenti perché creati nel pensiero.
Pittura di pensiero, forse. E questa potrebbe essere la fotografia più vera per fissare e definire l’opera di un artista che opera in trasparenza e coerenza e che, del mondo poetico, ci consegna alla sua maniera tutto quanto è possibile tradurre. Allora il suo sogno-astratto ha raggiunto lo scopo, un segno fermo, fissato in mille righe ma a grandi tratti così da chiudere e quindi da incorniciare, ogni propria composizione nello spazio di una meditazione quasi implacabile dove la vibrazione offerta dal colore-spazio-geometria si carica per forza di cose di una emozione contenuta che vibra, non c'è dubbio, per tutta la tela. Si può anche aggiungere che il suo universo delle "forme" per alcuni aspetti è inimitabile in quanto fuoriesce dal suo gesto artistico la purezza della sua etica.
Il tema è svolto nella quasi totalità lungo il segmento della individuazione ambientale operando sempre con un linguaggio affidato a memorie di ricordi lontani. In sostanza, Nicola Morea in un rapporto critico innovatore finalmente rompe il cerchio della solitudine della nostra età , per esaltare - e ci riesce - l'infinita fantasia regalandoci affollati pensieri di possibile felicità .
Raffaele Nigro
Elogio della malinconia
Nicola Morea è un coniatore di simboli. Dalla totalità oggettiva ama risalire alla sintesi dei segni. Davanti ad un suo quadro mi pare necessario, ogni volta, imbastire un gioco di investigazione poliziesca. Pittore a metà strada tra figurazione e astrattismo, non si lascia vincere dalla lusinga della tela o del foglio alla confessione, ma è vinto da pudore e costretto a dosare le parole, a centellinare il colore e i segni.
Morea divora la realtà e ne restituisce pochi frammenti chiusi in piccole forme aggraziate alle quali consegna i suoi bisogni di comunicazione. Questo ermetismo pittorico provoca il gioco investigativo, in quanto trasforma la produzione artistica in atto criminoso. Il fruitore deve cercare le chiavi di lettura per sciogliere i messaggi chiusi in bottiglia: arrovellarsi e risalire da frammenti e simboli a una totalità nascosta.
Già in altre circostanze Morea si è espresso con questa sinteticità . Era un linguaggio esoterico, quello che ha prodotto la nascita dei segni astrologici o dei simboli apotropaici impressi sui coni dei trulli, quella che ha convinto gli anonimi protoitalioti a produrre la bella figurazione geometrica dell'arte vascolare.
Breviario sintetico di una Puglia della calce e del pastello, cosi mi pare di etichettare questa pittura non nuova all'osservazione dei panorami, allo sconfinamento nella natura e che scopre ora il barocco e il suono, scopre la doratura dei legni antichi e li awicina all'albore della calce. Mentre il gioco investigativo procede e siamo gatto e topo, l'artista e l'osservatore, il rebus e l'improbabile risolutore, mi pare di ascoltare appena un suono, un richiamo dell'artista che si cela nei labirinti dei segni, offre appena bisbigli e si rintana.
Il pennello impallidito traccia distese di colori che sono una dichiarazione d'amore per le campagne, i cieli le colline, per tutta la gamma della dolcezza e del morbido che offre una natura offesa dall'uomo e dalla tecnologia.
Mi pare di intuire in questi chiarori quella primavera in cui i medievali credettero si collocasse la nascita del mondo, in suoni armoniosi di flauti e di arpe, la primavera nella quale si collocò la nascita della dea della bellezza, nel coro delle ninfe. Ma primavera e bellezza hanno bisogno di difesa. Non c'è una specie animale o vegetale da proteggere, ma l'uomo e il suo ambiente, l'arte e la bellezza. Impotente, il pittore affida il richiamo ai colori e i colori si vestono di malinconia, la malinconica attesa di una perduta leggiadria rinascimentale.
Donato Conenna
QUEL RACCONTAR DI TERRE E DI MARE
Quando una linea e un colore, assolutamente autonomi, entrano in osmosi? Quando si crea l'effetto F, cioè il punto focale d'incontro tra realtà e astrazione Una lettura anche subitanea delle opere di Morea, Nicola Morea da Mola di Bari, porta a questi interrogativi che, in quel particolare mondo di frontiera tra forma e astrazione, assumono una valenza captativa (di quanto si legge e si vede nell'opera) assolutamente non trascurabile. Gli è che le opere di Nicola Morea hanno l'aspetto ambientale e "geo-grafico" delle Murge. Aspetto "geo-grafico". Mai termine fu più azzeccato e azzeccante: geo - grafia, scrittura della terra e sulla terra. E le geo-grafie di Nicola Morea, che ha il grande vantaggio di abitare queste terre morfologicamente singolari, sono un test probante di come e di quanto, per una volta, realtà e astrazione trovino un punto focale d'incontro, una sorta di area di più sensazioni percettive, in cui l'autonomia delle lineazioni e dei colori in essa contenuti conservano il loro linguaggio autoctono e libero da sovrastrutture descrittive; nello stesso tempo, per fatto compiutamente geo-grafico (lo dice la parola stessa) la narrazione paesaggistica si avvale di queste "convergenze parallele" di segmentazioni e cromie, che a giuoco di percezioni visive ultimato, ad "effetto F"raggiunto, offre chiarissima la sensazione del sorvolo di un areale murgiatico, striato nei valloni e sui pendii, sino negli angoli più ascosi. Pittore macrofigurativo, dunque, il Nicola Morea, o ultimo dei bucanieri astrattisti, impegnato 'a' raccontar di terre", impermeabili ad ogni sorta d'infiltrazione culturale Né l'uno, né l'altro.
Una lettura delle sue opere, non soggetta ai vizi delle antiche querelles su formale e informale, su iconico e aniconico, che hanno annoiato i salotti degli anni Settanta e Ottanta, porta con tranquilla certezza a considerare il tessuto geocompositivo di Morea come ad un ricorso alla optical-art "in guisa terrena e terrestre", direbbe il buon Vasari, in modo tale che veramente, il respiro della terra si avverta (come in Campo di grano, del 1991, come in Murgia rossa, del 1990), e il punto focale F, per fatto percettivo e pervasivo dell'occhio venga raggiunto. Ma non solo di parallelismi convergenti vivono i segni e i colori di Nicola Morea : andiamo avanti nella lettura delle opere e vedremo che l'artista barese annette ai contorni delle conformazioni murgiatiche un chè di femminile e di maternale: non a caso in topografia le alture dolci che subito declinano in una ospitale curvatura si chiamano mammelloni.
Ecco, nella pittura murgiatica di Morea il riferimento alla Terra Madre di tutte le cose è presente, è invocato, è a volte espresso con genuine o ingenue, vedete voi, anatomie (Murgia, per esempio). Non è difficile dimostrare, con queste corpose volute portate sulla superficie delle tele dal vomere di colori impugnato da Morea, che la terra è femmina, che accoglie i semi aprendosi al sole e alla luna in icasmi non meno sinuosi e sontuosi di quelli di un corpo di donna. Ed il "rapporto con la terra" per un artista che si prefigga risultati di certa proprietà (di originalità , intendo dire) in un territorio, come quello dell'arte, dove l'originalità non è un bene di consumo, dove la tradizione ha dei posti di controllo lungo tutte le strade che portano al mercato ; dove pur col viatico della ricerca, l'invenzione compositiva (e non parliamo, in Morea, dell'invenzione di un nuovo linguaggio espressivo!) è sempre difficile, la domanda che ci si pone diuturnamente è una sola: che fare del paesaggio che ci circonda ?
Che fare, per essere unici. Con questa predilezione del "rapporto con la terra" Nicola Morea ha risolto la situazione concettuale, assorbendo in modo personalissimo la grande lezione della land-art, riuscendo a creare un proprio fronte espressivo, non già ripetendo operazioni pittoriche già in auge, ma assumendo e sviluppando una diversa metodologia di riordino del colore atmosferico con queste coordinate di pigmenti che paiono scomporsi in modo disordinato per poi ricomporsi, a processo descrittivo avvenuto, in macchie e tratteggi che offrono all'osservatore quella fedeltà ambientale che, se vogliamo, è il premio finale di ogni intenzione, di ogni progetto, di ogni dottrina, a monte o a valle dei fatti d'arte.
Ultima, ma non certo per importanza nella lettura delle opere di Morea, è la parte antropologica di alcune sue periodazioni (vedi "La campana", deliziosa citazione da un giuoco collettivo infantile), che molto risente non già delle ondulazioni di superficie, quanto delle escavazioni che in epoche primitive sono state ottenute nel ventre della terra e i cui delimiti Morea ridisegna con piglio rabdomantico (e con notevoli e a volte avulse alterazioni dell'ordito armonico di superficie).
Vengono così alla luce geroglifici e ologrammi, simboli rupestri e primorde anatomie: una, fa stupendamente pensare che Matisse, per concludere il ciclo de "La dance"si sia lasciato condurre in queste grotte; un'altra conduce a suddivisioni di terreni secondo percezioni visive di Kandinski e di Klee e non di un tecnico agronomo che voglia scansionare gli ettari "coltivati a sole" della assolata terra di Puglia.